Unesco alla siciliana, i siti in sofferenza della bella Sicilia – dossier 2° edizione
Dossier 2° edizione
UNESCO ALLA SICILIANA
i siti in sofferenza della bella Sicilia
6 marzo 2013
“Non è segnata su nessuna carta:
i luoghi veri non lo sono mai”
Herman Melville, romanziere e poeta
“I siti Unesco della Sicilia rappresentano insieme e unitariamente un “paesaggio culturale” di assoluta rilevanza, che “racconta” una storia antica e unica. Noi siciliani dobbiamo avere la capacità e l’impegno di voler continuare a raccontare questa storia, ma, soprattutto, esserne finalmente all’altezza”: queste erano le ultime parole dell’introduzione al nostro Dossier “UNESCO ALLA SICILIANA” del novembre 2011.
Gianfranco Zanna, direttore regionale di Legambiente Sicilia
Scarica: Dossier Siti Unesco 2^ Edizione
Muos – Niscemi
Osservazioni e proposte in merito alla vicenda del Muos all’interno della Riserva Naturale “Segherata di Niscemi” …
Adesione manifestazione NO MUOS
Relazione finale verificazione MUOS
Dossier 2012 Goletta dei laghi in Sicilia
I laghi siciliani: un tesoro da tutelare, valorizzare e promuovere
Non sono molti i siciliani che conosco i nostri laghi e i nostri bacini artificiali. Tutti ce ne occupiamo solo d’estate, quando non piove e queste riserve acquifere cominciano a scarseggiare. Il rapporto dei siciliani con gli specchi d’acqua è solo e pressoché unicamente di uso e consumo, viviamo questo rapporto da “cittadini”, da chi vive in città, e gli invasi artificiali devono solo dissetarci.
E’ un peccato e un errore che sia così!
Per questo motivo, nel suo settimo anno, abbiamo deciso come Legambiente di portare per la prima volta in Sicilia la nostra Goletta dei Laghi, la campagna di monitoraggio e informazione sullo stato di salute dei laghi. E abbiamo scoperto un mondo nuovo, qualcosa di importante, ricco, che va tutelato, valorizzato e promosso. Abbiamo conosciuto operatori ed esperti che studiano e lavorano, abbiamo trovato emergenze e ritardi (come sempre in Sicilia!) e abbiamo ricordato come spesso la costruzione di una diga abbia segnato la storia e la vita di una comunità, di un pezzo di territorio, di un momento della storia travagliata di noi siciliani.
Siamo, innanzitutto, riusciti a fare, forse (il forse è d’obbligo visto che restano ancora alcune piccole differenze) un censimento di tutti gli specchi d’acqua siciliani con una certa dimensione: almeno superiori ad un ettaro. Non abbiamo rispettato perfettamente il dettato dell’art.74 del D.Lgs. n.152/06, che definisce lago “un corpo idrico superficiale interno fermo” e invaso “un corpo idrico fortemente modificato, corpo lacustre naturale-ampliato o artificiale”, con dimensioni previste differenti. Abbiamo così censito 52 specchi d’acqua, di cui 6 naturali.
I sei naturali sono tutti in ambito di riserve naturali e inseriti in aree di Siti d’Interesse Comunitario e/o in Zone di Protezione Speciale. Hanno quindi una valenza naturalistica elevatissima. In particolare tutelano piante rare e, in alcuni casi, in via d’estinzione, ma soprattutto svolgono un ruolo importantissimo e decisivo nella tutela e conservazione delle specie migratorie di avifauna, che attraversano la nostra regione per andare a svernare in Africa, ma sempre più spesso si fermano da noi in questi magnifici luoghi, o per andare a riprodursi nel resto dell’Europa.
Facciamo sempre troppo poco per le riserve naturali, sempre più spesso alle prese con problemi di bilancio e tagli ai finanziamenti.
Le sei riserve naturali hanno tutte storie diverse, che in parte si evincono dai materiali che qui abbiamo pubblicato. Sicuramente le due aree protette gestite dalle Province Regionali di Caltanissetta, Lago Soprano, e di Messina, Laghi di Ganzirri e Faro, non stanno tanto bene, anzi. E’ finora mancata una vera e attiva azione degli enti gestore. Noi speriamo bene e, magari, questa prima edizione di Goletta dei Laghi in Sicilia li spingerà a svolgere, dopo più di dieci anni, la loro delicata e decisiva funzione, assumendosi le loro responsabilità.
Ben altra storia è quella degli invasi artificiali.
Innanzitutto la loro costruzione è una parte importantissima della storia di tutta la Sicilia. Hanno segnato la nostra vita, non solo perché hanno contribuito in modo decisivo ad alleviare l’atavico problema dell’acqua, del bere o dell’irrigazione dei campi, ma, direi soprattutto, perché parlando di essi significa raccontare di lotte civili e sociali, del movimento contadino, della riforma agraria, dei digiuni di Danilo Dolci, degli scioperi all’incontrario, delle marce di protesta non violenta.
Significa parlare di mafia, del suo prevaricare, sopraffare, ricattare e uccidere.
Noi non vogliamo dimenticare questa storia e vogliamo conservare viva la memoria.
La mafia ha individuato in questi grossi appalti un altro modo per speculare e arricchirsi e per raggiungere questo delinquenziale scopo non si è fermata, come sempre, davanti a nulla.
Molte dighe in Sicilia sono costruite con il sangue di siciliani innocenti morti perche non volevano piegarsi alla violenza mafiosa o perché cercavano di fare luce su quel torbido intreccio di affari, interessi e speculazioni che ruotavano intorno alla costruzione di un invaso.
Qui, in questo primo nostro Dossier, che ha messo insieme notizie e informazioni per cominciare a ragionare e far discutere degli specchi d’acqua siciliani, raccontiamo con le parole di un lontano 1977 di un grande giornalista di cronaca, Mario Francese, le vicende delinquenziali della costruzione della diga Garcia, in provincia di Palermo. La costruzione di questa diga è forse la più sanguinosa e perversa, ma non è purtroppo l’unica.
L’inchiesta sulla diga Garcia è per Mario Francese lo scoop di una vita di giornalista. Dettagliata, circostanziata, piena di riferimenti puntuali, di fatti, di nomi e cognomi, la diga è l’ordito intorno al quale egli tese una trama fitta di personaggi , avvenimenti luoghi, indagini, testimonianze, rapimenti, assassini, appalti, burocrazia, mafia e politica.
Il 26 gennaio 1979, di sera, i killer della mafia aspettarono Mario Francese sotto casa e lo uccisero con cinque pallottole.
Come abbiamo già detto non è la sola vittima caduta per la costruzione della diga Garcia. Quasi sicuramente per la stessa ragione fu ucciso la sera del 20 agosto 1977, a Ficuzza, in provincia di Palermo sulla strada per Corleone, anche il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, che in quel momento era in compagnia di un suo amico, Filippo Costa, anch’esso trucidato, da un comando di corleonesi guidato da Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina.
La storia degli invasi artificiali in Sicilia è drammaticamente anche questa.
Oggi sono una realtà, anche se, in alcuni casi, non riescono a svolgere a pieno il ruolo per i quali sono stati costruiti, perché mancano le canalizzazioni e l’acqua raccolta non viene distribuita (qui raccontiamo, ad esempio, la pessima gestione della diga Gibbesi); molti non hanno tutte le autorizzazioni e le necessarie verifiche e, dunque, non possono raccogliere tutta l’acqua che potrebbero invasare; altri hanno problemi d’inquinamento che gli enti preposti ai controlli e alla loro gestione fanno finta di non conoscere.
Hanno, però, sempre di più acquisito una valenza naturalistica, luogo di transito e svernamento di molte specie di avifauna. Un aspetto interessante da studiare e valorizzare, per campagne e promozione.
Sono un elemento di arricchimento del paesaggio siciliano, spesso arido e brullo, anche se lo hanno notevolmente modificato. Possono essere un altro elemento attrattivo per un turismo di qualità, naturalistico ed ecosostenibile.
Noi, da oggi, vogliamo cominciare ad occuparci anche di queste realtà, complesse e articolate, ma anche e soprattutto ricche e affascinanti.
Questo nostro nuovo impegno servirà, auspichiamo, a stimolare la Regione Siciliana ad organizzare un’azione coordinata di monitoraggio, salvaguardia e tutela di tutti i nostri specchi d’acqua e si inquadra nella nostra quotidiana azione per valorizzare le bellezze della nostra isola.
di Gianfranco Zanna, direttore regionale di Legambiente Sicilia
Mal’Aria 2012
La cronica malattia di cui soffrono le città italiane, ovvero la pessima qualità dell’aria, non accenna a placarsi. Se da una parte aumentano le città che rispettano i limiti per l’ozono, peggiorano quelle che sono oltre i valori di legge per il biossido di azoto e i superamenti del PM10. Nel 2011, secondo la classifica di Legambiente “PM10 ti tengo d’occhio”, sono state 55 (sulle 82 monitorate) le città che hanno esaurito i 35 superamenti all’anno del limite di legge giornaliero per la protezione umana del PM10. Torino, Milano e Verona sono le prime tre città in classifica, rispettivamente con 158, 131 e 130 superamenti registrati nella centralina peggiore della città. Il numero dei capoluoghi fuorilegge è aumentato rispetto allo scorso anno (erano 47 su 86), ma quello che più preoccupa è l’entità del fenomeno e il numero impressionante di superamenti annuali del limite giornaliero di protezione della salute umana per molte di queste 55 città. Se per ipotesi le città potessero accumulare dei “debiti di emissione”, ovvero utilizzare in anticipo i 35 superamenti concessi ogni anno, Torino non potrebbe più andare oltre i 50 μg/m3 per almeno tre anni e mezzo, Milano e Verona per 2 anni e otto mesi, Alessandria e Monza per 2 anni e mezzo, altre 6 città per oltre due anni. Per non parlare poi delle preoccupanti variazioni da un anno all’altro. In alcune città lo smog ha tolto ai cittadini fino a due mesi di aria respirabile rispetto al 2010, come è successo a Cremona e Verona, casualmente due città dell’area della Pianura Padana, che si conferma ancora una volta l’area più critica, un’area dove solo sei città si salvano dalle polveri fini.
E se diminuiscono le città che hanno superato più di 25 volte il valore giornaliero dell’ozono, ci sono 18 città in cui i superamenti sono stati più del doppio di quelli concessi, e, tra questi, a Lecco, Mantova e Novara addirittura più di tre volte. È in leggera crescita anche il numero di città che non rispettano i limiti del biossido di azoto.
Sarà stata forse colpa del clima meno piovoso rispetto all’anno precedente, ma sicuramente la mancanza di misure strutturali per combattere l’inquinamento e l’assenza del tanto sospirato Piano nazionale di risanamento dell’aria, ovvero la mancanza di una reale terapia di cura, non hanno contribuito a guarire la situazione. Non è servito nemmeno il processo di revisione della rete di monitoraggio previsto dal Decreto 155/2010 (rispetto al quale molte regioni si trovano decisamente indietro), che prevede di considerare solo centraline di fondo e porterebbe in molti casi a ridurre il numero delle centraline, a ridimensionare i numeri dell’inquinamento registrati.
Non possiamo però dare solo la colpa all’assenza di pioggia o al numero ridotto di centraline. Le cause dell’inquinamento atmosferico sono chiare e conosciute da tempo. Sono i processi industriali e di produzione di energia, e in città prevalentemente il traffico veicolare e i riscaldamenti, le principali fonti di emissione di polveri fini, ossidi di azoto, dei precursori dell’ozono e degli altri inquinanti come gli idrocarburi policiclici aromatici o il monossido di carbonio. Ed è su questi settori che bisogna intervenire. Analizzando il dettaglio cittadino delle fonti di emissione, si vede come il contributo del traffico veicolare sia rilevante per le polveri fini (come a Roma, Milano, Palermo e Aosta) e decisamente più netto per gli ossidi di azoto. Un’altra fonte sempre più influente in città è quella dei riscaldamenti, che in alcuni casi supera anche il contributo delle automobili, come ad esempio a Bolzano, Trento, Cagliari. E scendendo nel dettaglio delle emissioni che provengono dalle diverse categorie di veicoli, sono sempre le automobili le peggiori “inquinatrici”, e sebbene sul mercato compaiano modelli di auto sempre più efficienti e alcuni progressi siano stati fatti sulla riduzione degli inquinanti che escono dai tubi di scappamento, non vanno sottovalutate quelle 9mila tonnellate di polveri a livello nazionale che derivano dall’usura degli pneumatici, dei freni e del manto stradale, che in buona parte finiscono nei nostri polmoni.
Se poi consideriamo che le automobili e in generale il trasporto su gomma (che comprende anche veicoli commerciali leggeri e pesanti, autobus, motocicli) sono responsabili del 26% delle emissioni di CO2 in atmosfera in Italia, capiamo quanto sia sempre più importante scegliere modelli il più possibile “eco” (ovvero meno inquinanti) o, ancora meglio, ridurre il numero di veicoli in circolazione.
Per limitare le auto in città servono serie politiche di mobilità sostenibile e di potenziamento del trasporto pubblico locale, ma si deve pensare più seriamente anche al modo di ridurre il flusso del traffico pendolare in entrata. Sono circa 11milioni le persone che ogni giorno si spostano per recarsi al lavoro o ai luoghi di studio, e di questi solo 2,8milioni sceglie il treno. Le pessime condizioni del servizio ferroviario e dei treni sono continuamente peggiorate dai continui tagli delle risorse e dei collegamenti, a cui si aggiungono le difficoltà di muoversi in città una volta usciti dalla stazione, rendono il treno decisamente poco appetibile come mezzo di trasporto. Eppure aumentare di 1000 unità i treni in circolazione, o investire a lungo termine per portare i passeggeri ad almeno 4milioni, porterebbe benefici non solo alla qualità della vita, ridurrebbe anche le congestioni da traffico, e comporterebbe un certo risparmio di emissioni in atmosfera, stimate da Legambiente in una riduzione dal 3,3% al 5,5% di PM10.
Meno auto in città significherebbe anche meno inquinamento acustico. In Europa più di 200milioni di persone sono esposte a livelli gravi o inaccettabili di rumore. Difficile essere più precisi, visto che le attività di valutazione della popolazione esposta sono state fatte in modo praticamente occasionale e non si investe in campagne di monitoraggio continuo, se non relative a problemi localizzati e stagionali, spesso solo in seguito agli esposti dei cittadini esasperati. In Italia infatti le informazioni sull’inquinamento acustico continuano ad essere frammentarie, e questo rende difficile fare una valutazione complessiva. Se si pensa poi che tra i capoluoghi di provincia solo 10 hanno installato centraline fisse per il monitoraggio dell’inquinamento atmosferico in città, e che la percentuale di popolazione che ricade sotto un piano di zonizzazione acustica (lo strumento di base per individuare le aree a rischio e gli interventi) non arriva nemmeno al 50%, pari al 42,9% dei comuni e al 37% del territorio nazionale, abbiamo un quadro decisamente sconfortante di quanto questo problema sia ancora purtroppo molto sottovalutato. Eppure gli impatti sanitari causati da alti livelli di rumore sono ben noti, i cittadini stessi indicano il rumore tra le principali preoccupazioni, e Legambiente ogni anno registra valori di rumore preoccupanti in ogni tappa in cui si ferma con la campagna Treno Verde. Ma a quanto pare tutto questo non basta a far salire l’attenzione e a velocizzare l’adozione degli strumenti legislativi previsti e degli interventi necessari a mitigarne gli effetti da parte delle amministrazioni competenti.
Eppure non c’è sindaco, non c’è amministrazione locale, che non abbia messo ai primi punti del suo programma di governo urbano la gestione e la risoluzione dei problemi legati al traffico. Qualcosa è successo, oggi ogni cittadino ha a disposizione 0,34 metri quadrati di isole pedonali e 3,28 metri quadrati di zone a traffico limitato, numeri pari a zero solo 30 anni fa. Ma sono numeri insufficienti, se poi parallelamente non si investe sui mezzi pubblici, se raddoppia il tasso di motorizzazione e gli abitanti delle città sono cresciuti del 15%.
Al traffico si risponde troppo spesso con interventi occasionali di emergenza, come blocchi del traffico o targhe alterne, che, se portano benefici un giorno, risultano già annullati il giorno dopo. Il blocco del traffico può servire a qualcosa solo se programmato in modo continuo nel tempo, e associato a provvedimenti quali il pedaggio urbano (come la recente introduzione a Milano dell’Area C), l’estensione delle zone 30, delle zone a traffico limitato, delle aree pedonali, delle corsie preferenziali per i mezzi pubblici fino al 75%. Il tutto coordinato a livello nazionale da un Piano di risanamento della qualità dell’aria, che ancora si fa attendere nonostante le dichiarazioni del nuovo Ministero dell’Ambiente. È fondamentale poi intervenire in modo più deciso anche per far rispettare il codice della strada, oggi ampiamente disatteso e ampiamente perdonato, se pensiamo che ogni patentato paga in media solo 33 euro di contravvenzioni l’anno. A questo si devono associare altre misure come ad esempio quelle relative al riscaldamento, che, come abbiamo visto in molte città, contribuisce in maniera sostanziale all’aumento dell’inquinamento dell’aria. Solo in questo modo si possono ottenere reali riduzioni del traffico, delle emissioni d’inquinanti, del rumore, e un parallelo miglioramento della qualità della vita in città. La soluzione è possibile, richiede solo più coraggio da parte degli amministratori, e più responsabilità da parte dei cittadini.
Rapporto cave 2011
Il settore delle attività estrattive è oggi un perfetto indicatore per capire come un Paese è capace di immaginare il proprio futuro. Ossia di come pensa di tenere assieme identità e innovazione, tutela del proprio patrimonio storico culturale e sviluppo economico. Perché è un’ attività che ha accompagnato la storia urbana, riguarda da vicino tanti settori “pesanti” dell’economia – come edilizia e infrastrutture -, incrocia alcuni marchi del Made in Italy nel Mondo, come la ceramica e i materiali pregiati. E interessa fortemente il paesaggio e la qualità dei territori in cui le attività si svolgono, sollecita ragionamenti che riguardano il rapporto con una risorsa non rinnovabile come il suolo e la gestione dei beni comuni. Ma soprattutto oggi in molti Paesi europei si è messa in moto una profonda innovazione che ha permesso di ridisegnarne completamente i profili creando nuove imprese, lavoro in un ambito strategico della green economy. Non esistono infatti più scusanti credibili per non ridurre in maniera significativa il prelievo da cave attraverso il recupero e il riutilizzo degli inerti provenienti dall’edilizia e, attraverso regole trasparenti e una giusta tassazione, ridefinire il rapporto con il territorio di un’ attività che ha un impatto rilevantissimo.
Con questo Rapporto Legambiente vuole fornire un quadro aggiornato della situazione nelle diverse Regioni italiane, per evidenziare problemi e opportunità, ma soprattutto per aprire finalmente i riflettori su un tema di cui troppo poco si parla. Di cave in Italia non si occupa infatti nessun Ministero, né c’è una chiara consapevolezza da parte delle Regioni della rilevanza paesaggistica ed economica del settore. Lo studio è costruito attraverso un questionario inviato alle Regioni ed alle Province competenti, incrociando i dati con studi europei e di settore. Si occupa nello specifico dell’attività di cava, ma non delle miniere o dell’estrazione negli alvei fluviali in quanto vietata dalla maggior parte delle Autorità di Bacino fatta eccezione per specifiche esigenze idrauliche.
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